Martedì 2 ottobre si celebra la giornata internazionale della nonviolenza. La data fu scelta dall’assemblea generale delle nazioni nel 2007 e corrisponde al giorno di nascita – nel 1869 – di Mohandas Gandhi, pensatore e politico indiano da tutti riconosciuto come massimo maestro della nonviolenza.
Abbinare una ricorrenza del genere a una persona e addirittura alla sua data di nascita può lasciare perplessi, per via della personificazione di qualcosa che dovrebbe avere valore universale. Ma nel caso di Gandhi è una scelta che può essere accettata, se si pensa a uno dei suoi aforismi più noti: “Sii il cambiamento che desideri nel mondo”. Ossia, comincia tu stesso a vivere secondo i principi e le regole che vorresti estendere a tutti. Personale universale, in questo senso, si uniscono.
Gandhi è spesso considerato un personaggio appartenente al mondo della spiritualità, per via dell’abbigliamento che a un certo punto della sua vita scelse, una semplice tunica bianca; per la vita in povertà; per il suo frequente riferimento alla morale e alla religione; per il suo aspetto ascetico. Ma Gandhi fu innanzitutto un uomo politico, che si impegnò in un’impresa ciclopica come la lotta di indipendenza dell’India dall’impero britannico e in un progetto di liberazione dei più poveri – milioni e milioni di persone – dall’oppressione politica e sociale in cui vivevano al suo tempo.
In Gandhi pensiero e azioni erano tutt’uno. Riprese l’idea della nonviolenza – traduzione del termine ahimsa, letteralmente non uccidere – dalla tradizione giainista, antica religione indiana diffusa nel suo stato d’origine, il Gujarat. Il Mahatma – Grande anima, come veniva chiamato – fece della nonviolenza la bussola della sua azione politica. Chiamava satyagraha, letteralmente forza della verità, le tecniche di ribellione nonviolenta contro l’ingiustizia e l’oppressione e scoprì che la non collaborazione, la disobbedienza civile, l’autogestione erano strumenti più efficaci delle armi nella lotta contro i poteri costituiti.
Così facendo mandò in crisi l’impero britannico, spiazzato dal messaggio e dalle tecniche imprevedibili di “quel fachiro indiano semi nudo”, come ebbe ad apostrofarlo il futuro primo ministro Winston Churchill quando lo vide un giorno aggirarsi dalle parti di Westminster a Londra, durante una fase delle lunghe trattative fra il movimento indipendensita indiano e il governo britannico.
La nonviolenza di Gandhi si estendeva agli animali. Nato in una casta che praticava il vegetarismo, il giovane Gandhi cominciò a consumare carne di nascosto all’inizio del suo percorso nelle file dell’indipendentismo: si era convinto che la soggezione del suo popolo fosse legata anche a una debolezza fisica dovuta all’assenza di proteine animali nell’alimentazione. Certe dicerie, evidentemente, esistevano già ai suoi tempi.
Gandhi tornò al vegetarismo quando approdò in Europa, a Londra, per i suoi studi in giurisprudenza: al momento della partenza aveva promesso alla madre di non toccare né alcol né carne. A Londra scoprì la Vegetarian society di Henry Salt e il suo vegetarismo divenne politico, visto che la Vegetarian society aveva una concezione rivoluzionaria del suo progetto di società: non predicava la semplice conversione dell’individuo a un’alimentazione senza carni, ma immaginava una società diversa, che escludesse la sopraffazione degli uni sugli altri.
Purtroppo i moderni animalisti, anche i filosofi e pensatori impegnati nella complicata costruzione di un pensiero detto antispecista, trascurano solitamente la tradizione nonviolenta, che anche in Italia ha avuto un importante sviluppo grazie ad Aldo Capitini (1899-1968), altro personaggio poco e spesso mal conosciuto.
Filosofo e uomo politico, a Capitini si deve l’idea di scrivere nonviolenza in un’unica parola, per evidenziare la sua natura di progetto positivo di trasformazione sociale e non di semplice appello alla rinuncia alla violenza fisica.
Capitini, come Gandhi, progettava una società liberata, tendenzialmente egalitaria, e pensava che la società degli umani dovesse stabilire relazioni nuove con gli altri animali e con l’ambiente circostante, fuori dall’antropocentrismo tipico di tutto il pensiero occidentale. Lui stesso fu vegetariano – in chiave anche antifascista .- e cofondatore della Società vegeteriana italiana, in un’epoca in cui il vegetarismo era visto dai più come un’incomprensibile bizzarria.
Capitani sosteneva la necessità di far coincidere mezzi e fini, in antagonismo con la tradizione rivoluzionaria prevalente, secondo la quale i mezzi – anche violenti – giustificano i fini – la rivoluzione -, una prassi che ha fatto fallire pressoché tutti i percorsi rivoluzionari conosciuti.
Oggi sappiamo di vivere nell’Antropocene, l’era geologica caratterizzata dall’azione distruttiva dell’uomo, e siamo alla ricerca in un pensiero capace di ispirare istituzioni e comporamenti che tolgano all’uomo la presunzione d’essere il dominatore del pianeta; cerchiamo anche relazioni di giustizia all’interno delle società umane, coscienti delle crescenti, ormai insopportabili diseguaglianze. A ben vedere è la direzione di marcia da sempre coltivata in seno alla nonviolenza, una tradizione – se vogliamo – più consolidata e forse anche più convincente di quel magma ancora in fermento che chiamiamo antispecismo.
In occasione del 2 ottobre possiamo allora riflettere su questo pensiero del Mahatma Gandhi, pensatore e uomo politico ucciso il 30 gennaio 1947 da un militante estremista nazionalista di religione induista: “La prima condizione della nonviolenza”, diceva, “è la giustizia, dovunque, in ogni settore della vita. Forse, è esigere troppo dalla natura umana. Io però on lo penso. Nessuno dovrebbe dogmatizzare sulla capacità di degradazione o elevazione della natura umana”.
Lorenzo Guadagnucci
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