A prima vista può sembrare un paradosso, ma l’agricoltura è una specie di infinito tormento per gli animalisti. Da un lato perché l’agricoltura, per come si è manifestata storicamente, include un esplicito sfruttamento degli animali, che vengono usati per il lavoro e soprattutto allevati per poi ucciderli a fini alimentari o per venderli ai macelli, il che è sostanzialmente la stessa cosa. Il secondo motivo di tormento è più sottile, perché riguarda l’alimentazione a base di vegetali.
Eh sì, perché un’alimentazione vegan deve fare i conti con le modalità di produzione di ortaggi, cereali, frutta e così via. E’ noto che le tecniche di produzione includono sempre l’utilizzo di letame di origine animale, ottenuto generalmente con materia prima proveniente dai grandi allevamenti industriali, salvo le eccezioni di aziende agricole che hanno piccoli allevamenti, ma la sostanza, anche qui, non cambia.
C’è una via di uscita? Esiste, o almeno si può immaginare un’agricoltura separata dallo sfruttamento animale; è possibile pensare a una produzione orticola che fa a meno del letame, che non fa stragi di insetti e altri animali considerati nocivi?
A Settignano, nel nono incontro organizzato dalla nostra trasmissione insieme con la Casa del popolo di Settignano, ce lo siamo chiesto, invitando alcuni qualificati ospiti, grazie anche al contributo di Marco Bignardi, presidente del Coordinamento roscano dei produttori biologici e di Marco Verdone, veterinario omeopata, il quale ha rimarcato l’importanza di mantenere fermo il principio del non sfruttamento degli altri animali. Su un punto Verdone è stato molto netto, quando ha detto che nella società dell’antispecismo gli animali cosiddetti da reddito – maiali, vacche, galline eccetera – semplicemente non ci saranno. In qeulla società avremo solo i loro parenti selvatici:il cinghiale, i bovini liberi, i galli che abitano boschi e foreste.
Ne è venuto fuori un quadro d’insieme un po’ contraddittorio, ma con alcune aperture incoraggianti.
Di che cosa abbiamo parlato? Con Carlo Brivio di omeodinamica, una variante della biodinamica. Carlo è vegetariano e nella sua azienda – ha spiegato – tiene capre, cavalli, galline, animali da cortile. La produzione agricola si avvale del loro… contributo in termini di letame e di lotta spontanea agli insetti, diciamo così. I nuovi nati in eccesso rispetto alla possibilità di tenerli in azienda, vengono regalati o venduti, in particolare gli agnelli ma anche i cavalli. C’è il dubbio di quale sia la fine ultima di questi animali regalati o venduti: Carlo ha detto di sapere, almeno nel caso degli ultimi agnelli, che sono ancora in vita, ma è chiaro che un sistema del genere non può funzionarre. Ci vorrebbe, casomai, la sterilizzazione.
Franco Pedrini ha parlato di biodinamica, la disciplina nata dalle idee del filosofo Rudolf Steiner. L’azienda è concepita come un organismo vivente, il cibo deve avere – ed ha, ha speigato Franco – una sua vitalità. La chimica è bandita, si segue un calendario astrale particolarmente dettagliato per le semine e le altre attività e gli animali fanno parte del ciclo lavorativo. La loro fine è nota, anche perché la biodinamica non prevede una scelta vegan. In verità Franco ha detto che esistono anche alcune aziende biodinamiche che non hanno animali in azienda. Ci vorrebbe un approfondimento ulteriore per capire meglio come agiscono concretamente.
E poi ha parlato Eva Eisenreich, dell’associazione fiorentina Permacultura, che ha dato le indicazioni decisamente più promettenti. Ha parlato del metodo Manenti, un agricoltore piemonetse che ha studiato e sperimentato per un ventennio una teecnica che parte da una considerazione molto precisa e cioè che i batteri, i microrganismi che rendono vitale il terreno si concentrano attorno alle radici. perciò il metodo Manenti prevede che il terreno non sia rivoltato – un precetto comune a bio e omeodinamica – e che le radici siano lasciate nel terreno. L’azienda in questione è attiva da tempo, opera sul mercato, ai prezzi di mercato, e non fa uso di concimi di alcun genere. C’è un libro – “Alle radici dell’agricoltura” scritto da Gigi Manenti e Cristina Sala – che racconta questa esperienza e di cui parleremo a parte in una prossima puntata.
Altro esperienza in fase di studio e sperimentazione illustrata da Eva ci porta in territorio amazzonico: si tratta delle “terra nera”: si tratta della riscoperta delle tecniche indigene, quando la coltivazione non prevedeva l’uso di vanghe zappe o altro. Gli indigeni si basavano sull’osservazione delle zone boschive, con la terra coperta di vegetazione e tuttavia morbida e fertile, grazie all’azione delle micorizze, una sorta di fungo che rende vitale il terreno. Qualcosa di simile al metodo manenti. Gli indigeni, ha spiegato Eva, non utilizzavano animali per le coltivazioni, anche se – va detto – avevano una’limentazione prevalentemente carnivora, frutto di attività di caccia. Al tempo d’oggi, tuttavia, le micorizze e le terre nere sembrano una buona soluzione per la riconversione e il recupero di terreni sottratti alle coltivazioni nelle società industrializzate.
Eva ha fatto notare che l’agricoltura industriale è solo una parentesi nella storia del rapporto fra le società umane e la terra – e questo è un pensiero da tenere presente quando di fronte a una zucchina o a un cesto d’insalata ci sentiamo depressi al pensiero che è stato coltivato con letame preso da un allevamento. E poi, non dimentichiamolo, anche se a Settignano nion ne abbiamo parlato, che per la cura dell’orto c’è sempre la possibilità di scegliere il metodo dell’orto sinergico, introdotto nelle sue grandi linee dal giapponese Masanobu Fukuoka.
Insomma, alla fine abbiamo capito che vale la pena immaginare ciò che a prima vista pare impensabile, perché i percorso dei viventi e delle società umane non è mai scritto una volta per tutte. L’imprevedibile è sempre dietro l’angolo e nel caso specifico un’altra agricoltura è possibile, un’agricoltura cruelty free è pensabile.
Un vegano antispecista troverà inquiteante l’uccisione, spinta fino ell’estinzione di alcune specie, della (micro)fauna del suolo causata dall’agricoltura convenzionale, che utilizza concimi chimici e, quando va bene, la rotazione con colture azotofissatrci (dotate di micorizze-rizobi) per le le produzioni vegetali. Ma neppure l’agricoltura bio-vegana impedisce questa strage, non è cruelty-free, per esempio la rotazione mais-soia è devastante per la fauna. Per compensare la carenza di sostanza organica animale, è necessario attuare un complesso sistema di rotazioni, consociazioni e avvicendamenti. Anche di questo tratta il libro “La Terra che vogliamo”, che verrà presentato alla Biblioteca dell Oblate di Firenze il 18 giugno alle ore 17:30 alla presenza degli autori Sandro Angioini e Beppe Croce
L’agricoltura uzbeka è atroce per gli animali e per gli umani adulti e bambini: la rotazione irrigua cotone-soia convenzionali comporta accumulo, sul suolo povero di sostanza organica, di veleni facilmente trasportati dal vento in quel clima secco, e un’abuso dell’irrigazione, che ha comportato l’estinzione di specie ittiche nel lago d’Aral, ormai ridotto al lumicino per insufficiente alimentazione fluviale.E per i consumatori non è facile sapere da dove proviene il cotone con cui sono fatti i propri abiti.