Il 7 novembre 2013 è morta la Grossa, una dei compagni felini di Annamaria Rivera e Gianfranco. La Grossa a suo tempo fu fra i personaggi di Spelix, il romanzo antirazzista e animalista che Annamaria ha pubblicato qualche anno fa. Pubblichiamo il suo ricordo della Grossa.
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«Da quando è sola, la Grossa, da quella paurosa che era, è diventata del tutto avvicinabile, perfino arrendevole alle carezze. Ha preso l’abitudine di seguirmi per alcuni isolati. Se mi siedo al tavolino del caffè o della gelateria, finché sono lì rimane acciambellata sotto la mia sedia. Se vado a far compere in qualche negozio vicino, mi aspetta fuori, poi mi riaccompagna fino al portone» (da Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, Dedalo 2010).
Dieci anni per strada aveva passato la Grossa, testimoniano le gattare più anziane del quartiere. Al tempo in cui era parte della colonia che contribuivo a sfamare e curare mi aveva ispirato il personaggio che avrei continuato a chiamare la Grossa.
Era una gatta prestante, se così si può dire di una gatta, con grandi occhi verdi e malinconici, il manto grigioscuro striato di nero, beige e bianco, bianchi il petto e le estremità delle zampe, come se portasse calzini.
Era la più robusta della colonia e aveva una fame inesauribile. La amavo anche per questo, perché mi dava soddisfazione: placava la mia ansia di nutrire qualunque vivente mi capiti a tiro.
La vita di strada l’aveva segnata: aveva la sindrome da immunodeficienza. Lo scoprimmo dopo averla salvata da una notte siberiana (a Roma!) e accolta in casa, fra il 3 e il 4 febbraio del 2012.
Era come se non aspettasse altro: si era adattata subito, quasi fosse nata e vissuta in un appartamento. Fin da quella notte aveva imparato a usare la lettiera. Subito aveva familiarizzato con gli altri suoi simili. E, come ben pochi gatti, già dalla prima volta aveva amato farsi spazzolare.
Più tardi avrebbe scoperto lo specchio. Fino a poco prima di morire, ogni giorno dedicava un’oretta a studiarlo, allungata sulle zampe posteriori, in bilico sul buffet. Da alcuni mesi era arrivata a comprendere che quelle che vedeva erano immagini riflesse.
Sembrava appagata e serena. Continuava a essere vorace come sempre e come nessun altro dei ‘nostri’ gatti, e io continuavo a compiacermene.
Quattro giorni fa ha cominciato a mangiar poco e solo per assecondarmi. Abbiamo capito subito che stava male e l’abbiamo portata dal veterinario. Il quale ha tentato invano di operarla: aveva un linfoma enorme, che dal rene si era allargato all’intestino. Non ha potuto far altro che addormentarla per sempre.
Mi mancano molto la sua voracità e il reciproco rituale minuzioso che accompagnava i tre pasti quotidiani. Di lei ci mancano la bellezza e la mitezza, la dignità e il riserbo, nonostante l’ingordigia.
E mi sento in colpa per aver acconsentito a quel nome scherzoso e plebeo, che aveva finito per perpetuarsi dalla strada al romanzo e dal romanzo alla nostra convivenza. Così inadeguato che un’amica filippina, ugualmente mite e garbata, lo aveva ingentilito in Grossina.
Avrebbe meritato un nome nobile e serio: qualcosa come Fedra, Nilde, Ofelia…
Nobile invece è la sua ultima dimora: tra pini secolari e ruderi antichi, accanto alle altre cinque creature feline che ci hanno lasciati nel corso del nostro tempo romano.
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