di Stefania Sbarra
Scrivo mentre si avvicina il momento di lasciare il testimone a quelli che verranno dopo. Sono quasi passate le 24 ore del digiuno ed in effetti la fame si fa sentire. Ma è una fame dolce, che si sta insinuando in punta di piedi, discretamente, quasi volesse rendere onore a questa scelta . L’avverto come una fame che non denuncia una mancanza di qualcosa di normale ma accompagna la compiutezza di un fatto speciale.
In occasione dei nostri eventi LAV è capitato di portare in piazza pesanti catene disposte sul selciato . Grosse, arrugginite catene messe lì a testimonianza che qualcuno ne disegna le maglie più o meno larghe, qualcuno le fabbrica, qualcuno le vende, e qualcuno le acquista. E qualcuno le usa.
Qualche secolo fa catene analoghe cingevano le caviglie e i polsi degli schiavi, schiavi umani.
L’apparato culturale del tempo con i suoi indottrinamenti non riteneva riprovevole tale costume, anzi il tradurre in catene un uomo, avvertito dal pensiero dominante come diverso, estrometterlo da quei meccanismi di riconoscimento di identità e di stato di diritto, attribuirli un fattore di inferiorità era ritenuto naturale, quasi fosse nell’ordine precostituito. Quasi fosse un dovere morale per la salvaguardia della classe dominate, quella che si arrogava ed esercitava il diritto di supremazia.
Le catene accompagnano e maledicono il genere umano. Sono il simbolo ferroso dell’onta che collega tra loro uomini di epoche differenti. Qualche secolo fa le catene cingevano le caviglie e i polsi degli schiavi del tempo. Nell’epoca attuale le catene hanno ancora un loro peso, non sono scomparse, anzi la loro produzione su scala industriale ne legittima l’uso. Domanda – offerta . Tutto perfettamente regolare.
Sono cambiati solo i destinatari che dovranno sopportarne il peso.
Pure questo sistema reclama il suo esercito di schiavi. Pure questo sistema ritiene normale tradurre in schiavitù un essere vivente quasi fosse un eterno tributo da consacrare ad un demone supremo.
Quel demone che si annida in ciascun uomo che non abiura a priori l’uso delle catene divenendo egli stesso schiavo del suo stesso permissivo pensiero verso la liceità dello sfruttamento di un altro essere. Quel demone che si annida in ciascun uomo che vede una catena e vi immagina con naturalezza ancorato un nuovo schiavo consentito dalla morale del tempo in cui vive.
E questo è il tempo degli schiavi animali. Tradotti in catene ogni giorno da una classe dominante di umani che hanno veicolato su poveri esseri inermi, lo smisurato potere della loro pochezza intellettuale.
Ma come nel tempo che fu, ogni tanto qualcuno esce dal coro, intona una sinfonia diversa, si fa promotore di qualcosa che irrompa prepotente e scompagini l’allineamento ordinato del pensiero omologato.
Ogni tanto qualcuno si rifiuta di assoggettarsi a regole prestabilite e nella solitudine della sua lungimiranza vede oltre un confine già designato. Mentre i tanti si allineano, scendono a compromessi, sono preda della confusione derivata dalla incapacità di andare oltre, qualcuno tesse la tela di un nuovo progresso culturale nella solitudine della sua lungimiranza.
Franco Libero Manco ha scritto una pagina bellissima dedicata alla universale solitudine degli animali. Solitudine. Avvertita spesso sin dentro i visceri, ogni qual volta abbia io stessa, cercato di essere una stecca fuori dal coro. Mi ritrovo in quelle parole, in quello scritto bellissimo e in questi giorni seguendo la vicenda di Davide ho pensato alla sua di solitudine. Ho pensato all’attimo in cui ha deciso, nella coerenza delle sue scelte di vita, di fare qualcosa per sovvertire l’ordine naturale delle cose ritenuto tale dai più. A molti danno fastidio le catene che imprigionano la vita e la dignità di un cane, ma lottano magari per allungarle, inconsapevoli promotori delle medesime.
Lui no, lui ha compreso che occorre rompere prima di tutto la catena che imprigiona il nostro stesso pensiero quando attribuiamo ad un metodo coercitivo una qualunque valenza positiva, una ragione di esistere. Lui non allunga le catene, lui chiede siano divelte. Lui chiede sia riconsegnata la libertà ad un essere vivente per il quale lo stato di animale non abbia più a pregiudicare l’inalienabile diritto alla dignità della vita.
Nella solitudine del suo pensiero ha deciso di prendere su di sé una buona parte di sofferenza, e tramite essa essere foriero di un vento nuovo. Ma questo, se rapportato alla massa di persone che incurante scivola via da questa presa di posizione, si traduce in solitudine, confortata però da altri come lui che hanno compreso l’importanza dell’agire rispetto al parlare. Dell’importanza della coerenza.
Da anni ho divelto le mie di catene, liberando la mente e il cuore dall’azione livellatrice di un sistema basato sullo specismo , ma lo scotto oramai da tempo è la solitudine nelle scelte quotidiane di essere sempre e comunque dalla parte dell’incatenato. Cane, vitello, mucca,maiale, pulcino che sia. Povero, vecchio,nero, malato, solo, emarginato, immigrato, indios che sia.
Tra mezz’ora scadrà il digiuno che mi ha fatto compagnia in queste 24 ore, e pronta a ripeterlo qualora fosse necessario, l’ho praticato per aiutare Davide assieme ad altri a rompere le catene della solitudine nelle scelte concrete a favore di chi non può difendersi, del debole, dell’ultimo.
Perché esiste certamente l’universale solitudine degli animali. Ma esiste anche di conseguenza una universale solitudine di alcuni uomini che hanno deciso, come Davide, di essere una stecca fuori dal coro. Di esserlo per aiutare ad esempio un cane che altrimenti passerebbe l’intera esistenza legato ad una catena più o meno lunga a discrezione della ragionevolezza e della compassione dell’uomo, ma sempre catena. Sempre schiavitù. Sempre sopruso.
Stefania Sbarra
LAV Sondrio
Discussion
No comments yet.