Da tempo sondaggi e indagini conoscitive indicano un generale rifiuto popolare della caccia. Recentemente in Piemonte la giunta regionale di centrodestra è arrivata ad abrogare del tutto la legge, provocando un inedito vuoto legislativo, pur di evitare un referendum regionale che le organizzazioni dei cacciatori erano convinte di perdere.
In breve: la caccia è una pratica ereditata dal passato, sempre meno in sintonia con la società contemporanea e in continua crisi di identità – è in vistoso calo anche il numero dei praticanti, stimati in circa 800 mila rispetto ai milioni di pochi anni fa – ed è avversata, sia pure blandamente, dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Sembrerebbe a un passo dall’uscita dalla storia e dal consesso civile, ma anno dopo anno l’universo venatorio riesce a proteggere se stesso da tutte le insidie, nonostante le inutili stragi di animali, nonostante i bollettini di guerra che ogni anno conteggiano morti, feriti e mutilati fra gli umani e nonostante la preoccupazione di molti cittadini al pensiero delle armi detenute da migliaia e migliaia di persone.
Come fanno i cacciatori a resistere? Perché non si approva una legge che vieti la caccia, pur sapendo che un provvedimento del genere avrebbe il favore della stragrande maggioranza dei cittadini?
Un pezzo di risposta ha naturalmente a che fare con i soldi. L’industria venatoria ha dimensioni notevoli: si stima che una stagione per ogni singolo cacciatore costi intorno agli 800 euro. E non sfugge a nessuno l’importanza della pratica venatoria per l’industria bellica: mettere in discussione le armi, il fatto che l’Italia ne è un grande produttore e che guerre e guerriglie in giro per il mondo sono delle autentiche feste per il made in Italy, è un tabù politico che ancora non si riesce a superare.
Ma la forza economica e ideologica dell’industria delle armi non basta a spiegare la permanenza nel consesso civile di una pratica odiosa qual è l’uccidere per divertimento.
Perché i cacciatori e le loro associazioni sono ancora interlocutori accettati nel mondo politico e istituzionale? Un buon osservatorio per provare a capirne qualcosa è l’Arci caccia, che potremmo definire l’ala venatoria del centrosinistra e che riesce a tenere le sue posizione all’interno di un’organizzazione – l’Arci appunto – che si definisce pacifista e che in un recente passato è stata fianco a fianco dei movimenti nonviolenti in numerosi contesti di lotta sociale alla globalizzazione neoliberista, da Porto Alegre in poi.
Sul sito di Arci caccia uno sopra l’altro troviamo due banner: uno dice “Viva la caccia, viva l’Italia”, e rimanda a un manifesto che celebra i 150 anni dell’unità d’Italia… L’altro riproduce una bandiera arcobaleno e invita gli iscritti ad Arci caccia partecipare alla marcia per la pace Perugia-Assisi (per Arci caccia, a quanto pare, le due cose possono andare di pari passo, ma forse sarebbe il caso di chiedere a chi organizza la Marcia un minimo di approfondimento e una rilettura di qualche opera di Aldo Capitini che di quella Marcia fu l’ideatore ma che ormai è a malapena citato pro forma e assai poco seguito per quello che fu il suo insegnamento. Capitini, ricordiamolo, è il filosofo e uomo politico che introdusse la nonviolenza in Italia e fu anche il fondatore, negli anni Cinquanta, della Società vegetariana italiana).
Dunque Arci caccia ha tenuto nello scorso fine settimana a Chianciano Terme il suo congresso nazionale, la cui impostazione fa capire lungo quali direttrici i cacciatori cercano una nuova legittimazione. Possiamo dire che la strategia è in tre punti. Primo: accreditarsi come ambientalisti. Secondo: allearsi con le organizzazioni degli agricoltori. Terzo: fiancheggiare strettissimamente le forze politiche amiche, in questo caso quelle di centrosinistra. I tre piani sono intrecciati e pressoché inscindibili. Basta scorrere il programma del congresso e dare un’occhiata al sito con le ultime iniziative.
Arci caccia alla vigilia del voto ha lanciato una campagna rivelatrice: si chiama “Fauna bene comune”. Una definizione che è un doppio ammiccamento. Da un lato la nozione dei “beni comuni” (al plurale) sta diventando un nuovo paradigma politico: è stato l’asse vincente del referendum contro la privatizzazione dell’acqua, ha convinto milioni di persone perplesse dall’ideologia della privatizzazione che nell’ultimo ventennio ha rotto gli argini fra destra e sinistra. E’ un concetto rivoluzionario, ha una forte carica di critica al sistema, ed è quindi in corso di banalizzazione negli ambienti conservatori attraverso la messa al singolare della nozione, che diventa così “bene comune”, cioè qualcosa di cui prendersi cura. Non è la stessa cosa.
Nel primo caso, al plurale, si parla di un concetto giuridico e politico che mette in discussione uno dei fondamenti dell’attuale assetto di potere, cioè il dominio del privato sul pubblico; nel secondo caso, al singolare, “bene comune” evoca buoni sentimenti e buone intenzioni, niente più.
“Italia bene comune” – ecco l’altro aspetto dell’operazione di Arci caccia – è anche lo slogan scelto dal centrosinistra per la sua campagna elettorale: in questo senso ad Arci caccia non fa certo difetto la chiarezza. Dopotutto i cacciatori e i loro familiari sono elettori. E infatti le sottoscrizioni all’appello “Fauna bene comune” sono fioccate fra i candidati di partito democratico e sinistra ecologia e libertà: citiamo qualche nome, prendendo dal sito di arci caccia: Pierluigi Bersani, Ermete Realacci, Renzo Ulivieri, Marina Sereni, Susanna Cenni, Claudio Fava, Nicola Latorre, Roberto Natale, Stefano Quaranta, Gabriele Berni, Stella Bianchi, Luca Sani eccetera eccetera.
Il preteso nesso con l’ambientalismo è assicurato da affermazioni come la seguente, che definisce la nozione di Fauna bene comune secondo Arci caccia:
“E’ su beni che devono risultare indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti che si rafforza l’idea di comunità nazionale e si dà un senso di appartenenza allo Stato. La fauna è tra questi perché evoca la bellezza del paesaggio, la vitalità delle nostre campagne, la forza e il buon governo del territorio che non può prescindere dalla necessità di mettere un argine alla devastazione e al consumo speculativo del suolo”.
Gli argomenti – si converrà – non sono molto forti. La venatura ambientalista è garantita dall’affermazione contro il consumo dei suoli e c’è anche un alito di anticapitalismo nell’accenno alla logica del mercato e del profitto: mancano naturalmente cenni all’industria delle armi, al piombo che viene disseminato nei boschi e a quel che davvero servirebbe per fermare la cementificazione – non certo l’uccisione di massa degli animali selvatici. Ma la copertura è comunque garantita dall’ambientalismo debole di Legambiente, partner di Arci caccia in questa campagna e presenza forte anche durante il convegno della scorsa settimana, insieme con la Cia, la confederazione degli agricoltori, anch’essa vicina al centrosinistra.
Al congresso di Chianciano si è anche assistito a un dibattito – ai nostri occhi un po’ surreale, ma forse siamo noi che ci sbagliamo – sulla questione di genere in ambito venatoria. La ex deputata ora dirigente di Sinistra ecologia libertà Fulvia Bandoli, la deputata del Pd Susanna Cenni, la direttrice di Legambiente Rossella Moroni e altre figure dirigenziali dell’associazionismo amico, hanno dato vita a una tavola rotonda per smentire – hanno spiegato – il luogo comune secondo il quale la caccia è una ridotta del maschilismo. Sarà…
E’ poi inutile dire che al congresso dell’Arci caccia sono arrivati i messaggi di presidenti di regione, sindaci, assessori, parlamentari amici: è su questa rotta, cioè rinserrando le fila con i partiti di riferimento – in questa fase Sel e Pd – e con le organizzazioni agricole e ambientaliste legate a questi partiti – Legambiente e Cia – che la sinistra venatoria cerca di proteggere se stessa dal suo anacronismo e dall’avversione che incontra nella società. E lo fa con grande impegno, cosciente di giocarsi tutto in termini di accettazione sociale, e a costo di impegnarsi direttamente in campagna elettorale, perfino con i modi un po’ sguaiati che vanno per la maggiore in questa fase. Basta leggere con che toni Arci caccia, l’8 febbraio scorso, ha attaccato due deputate del centrodestra – Michela Vittoria Brambilla e Fiorella Ceccacci Rubino – definite “paladine dell’animalismo nostrano”, ma prese di mira con argomenti che nulla hanno a che fare con le iniziative animaliste delle due deputate.
“Che cosa le accomuna? – ha scritto Arci caccia – Avere il nome o il cognome doppio, come ogni rappresentante che si rispetti dell’alta aristocrazia sociale. Aver contribuito all’elezione del Parlamento uscente più sexy di sempre. Essere belle ma poco avvezze alle “fatiche” che sarebbero richieste ad un Parlamentare; hanno infatti i più bassi indici di produttività in Parlamento: la Brambilla al 585° su 630 Deputati, la Ceccacci Rubino al 435° posto su 630 Deputati. (fonte Openpolice). Essere attratte per l’amore verso i felini: famoso il video dell’ex Ministro del Turismo che “gioca” con una tigre (opportunamente sedata) e l’imitazione di un gatto mentre carponi lecca il latte dalla ciotola durante il cortometraggio erotico di Tinto Brass che vede protagonista l’Onorevole eletta Miss Parlamento. Avere più attitudine per gli stivali in pelle con tacchi alti piuttosto che per quelli di gomma da campagna. A NOI SORGE UN DUBBIO: siamo sicuri che gli animali avrebbero scelto loro per farsi tutelare? La nostra risposta sarebbe chiara e inequivocabile, agli elettori italiani chiediamo semplicemente di riflettere attentamente. “
Non amiamo la destra e non simpatizziamo per le politiche animaliste delle due deputate, ma si converrà che gli argomenti e lo stile di Arci caccia sono quello che sono e soprattutto spingono ad avere molti più dubbi, rispetto alle onorevoli partecipanti al seminario di Chianciano, sul fatto che il maschilismo dei cacciatori sia solo un luogo comune,.
Magari ci sbagliamo e ci chiariremo le idee in futuro, ma intanto ci sembra di avere capito qual è il vero segreto dell’Arci caccia, oltre alle sue strategie di avvinghiamento, più che di fiancheggiamento, dei poteri amici.
Il segreto è non parlare di caccia. Non parlare del sangue, della moltitudine di animali uccisi per un macabro e crudele divertimento , del piombo disseminato nei boschi e meno che mai – ovviamente – dei morti e feriti fra gli umani (21 morti e 97 feriti nell’ultima stagione venatoria, in tutto 62 giornate di caccia effettive, un morto ogni tre giorni).
Per salvare la caccia, tentano di far dimeticare quel che la caccia è.
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