Per randagismo si intende, in genere, la condizione degli animali domestici che sono stati abbandonati o smarriti dal proprio padrone, e che si trovano quindi a vagare per proprio conto. Più in generale si può intendere per randagio qualsiasi esemplare di una specie di animali, inclusi i volatili, normalmente considerata “da compagnia” (in particolare cani o gatti) che viva per proprio conto, tipicamente ai margini della società umana, a prescindere che esso sia stato abbandonato o sia nato già in condizioni di randagismo, per esempio da genitori a loro volta abbandonati. Poiché il fenomeno del randagismo comporta anche problemi di sicurezza e di igiene pubblica, nei vari paesi esso è regolato da leggi specifiche e controllato da istituzioni preposte; tali normative e istituzioni possono definire il concetto di randagismo in modi più specifici. Per esempio, la legge italiana 281/91 sugli animali da affezione applica solo ai cani la definizione di “randagio” (classificando invece i gatti senza padrone come “animali in libertà”) e introduce una distinzione specifica fra “cane vagante” e “cane randagio”, riferendosi con quest’ultima espressione al caso di cani abbandonati che si siano abituati alla vita in condizioni semi-selvatiche, per esempio riunendosi in branchi.
randagio = animale di affezione abbandonato
In tal modo si impiega un termine unificante che, al di là delle differenze di specie, definisce la condanna di milioni di animali a un comune destino.
Eppure, anche se il senso comune si basa sulla definizione data, bisogna ammettere che quando si parla di randagi non si riesce a immaginare qualcosa di diverso dal cane o dal gatto. La ragione sta nel fatto che questi animali hanno uno status particolare nella storia della domesticazione.
Cani e gatti entrano in simbiosi con l’uomo migliaia di anni fa, ma le civiltà pastorale e contadina mantengono nei loro confronti un rapporto di pura strumentalità. In questa fase possono già essere considerati ‘compagni’ dell’uomo, ma non animali di affezione. In effetti, all’interno della relazione uomo/animale gli scambi sono chiari e marcati da una certa durezza. I cani devono svolgere le funzioni del pastore, della guardia o dell’assistenza nella caccia e i gatti pigliare i topi considerati da sempre un flagello. Possono così contare su un minimo di protezione e sostegno. Tali condizioni rendono l’abbandono in senso moderno piuttosto raro e, al massimo, si può parlare di disattenzione da parte del detentore o di maltrattamento.
All’interno della logica dello scambio di servizi contro cibo, l’elemento forte della relazione, cioè l’uomo, e’ interessato al controllo della popolazione dell’elemento debole. Vengono tenuti i piccoli nel numero utile a svolgere il compito; in tal modo si limita la necessità di disfarsi di elementi adulti che possono diventare indesiderati. Inoltre, la vita degli animali si svolge in condizioni difficili e questo lascia loro un fondo di ‘cultura selvaggia’ da impiegare in caso di perdita del sostegno umano.
Con le complesse trasformazioni sociali connesse al passaggio della società da agricolo-pastorale a industriale, avvengono profondi cambiamenti nella relazione uomo-animale domestico. Questo si trasforma da animale di servizi ad animale ‘da compagnia’. La trasformazione è complessa. Si può solamente accennare al senso di perdita di condizioni naturali che induce poco a poco le popolazioni cittadine a recuperare l’animale su una base diversa da quella precedente: se viene conservata una certa funzione di servizio, tendenzialmente emerge sempre di più quella definita ‘di compagnia’. La relazione si addolcisce, non c’è dubbio. Ma come sostiene il detto secondo cui “le vie dell’inferno sono lastricate delle migliori intenzioni”, accadono alcune condizioni riflesse negative per gli animali che subiscono la ‘compagnia’ umana.
L’animale finisce per perdere ogni capacità di adattamento alla vita naturale a causa di una vita totalmente dipendente dall’uomo. Dal punto di vista ecologico si trasforma in parassita diventando estremamente vulnerabile in caso di abbandono.
La crescita della domanda comporta una autentica esplosione demografica alimentata, da una parte, dallo sviluppo degli allevamenti e, dall’altra, dalla procreazione assistita in ambienti caldi e affettuosi. La perdita dell’abitudine tipica della cultura contadina di eliminare gli elementi indesiderati e la ricerca spasmodica di sistemazione delle numerose cucciolate aumentano notevolmente il rischio d’abbandono.
Infine, alimentata da un mercato impetuoso, si registra l’espansione delle specie elette ad avere e restituire compagnia. Conigli, criceti, serpenti, tartarughe, pesci, porcellini e uccelli di ogni tipo invadono i negozi e di lì si trasferiscono presso le famiglie. Nessun test preliminare di adattabilità è richiesto. L’animale è costretto a ‘tenere compagnia’ forzatamente. Che sia rinchiuso in una teca di vetro o costretto a correre ossessivamente su una ruota.
Possiamo porci una domanda importante: la situazione degli animali ‘da compagnia’ è migliorata o peggiorata? La risposta non è facile perché ha assunto i tratti dell’ambiguità. Gli animali da compagnia sono improvvisamente diventati ‘animali da affezione’ e ciò sembrerebbe conferire ai nostri amici uno stato più elevato. Ma siamo costretti a chiederci come possano sentirsi a loro agio animali non propriamente domestici come gli iguana o gli scoiattoli, nelle loro miserevoli gabbie. Nello stesso tempo non si può negare che questi immensi cicli di nascita – allevamento – distribuzione, anche quando riguardano animali sicuramente adattati alla presenza umana, diventano estremamente rischiosi per una vita il cui benessere è esclusivamente legato all’attenzione e alla responsabilità del detentore. Per quanti sforzi si profondano, è impossibile impedire che moltissimi animali escano da cicli controllati e vengano dispersi nel territorio.
Il randagismo diventa inevitabile, in crescita e, paradossalmente, una delle essenze della modernità. A dispetto delle melense rappresentazioni che la società ha di se stessa, si arriva a concludere che essa e’ ancora più crudele verso gli animali oggi chiamati ‘di affezione’ di quanto non siano state le società del passato. Ora si comprende che l’esigenza di impiegare ‘randagio’ come termine unico per chiamare animali diversi non sorge soltanto per definire un unico destino, ma anche per definire la perdita del ruolo (quello di animale da compagnia) che l’uomo rende omogeneo senza alcun rispetto per le particolarità di specie. In altri termini, ‘randagio’ è l’animale da compagnia generico (senza altre specificazioni) liberato contro il suo interesse. E’ l’animale che, cooptato nella società, perde prima l’animalità e poi la sussistenza.
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