In occasione della mobilitazione internazionale per la giornata per i Diritti Animali dello scorso 10 dicembre, venerdì 7 dicembre Essere Animali ha abbiamo organizzato una performance di forte impatto emotivo dal titolo “pescato”. Ne abbiamo parlato con Simone che ci ha raccontato come alcuni attivisti abbiano rappresentato il cosiddetto ‘pescato’, che in gergo è la quantità di pesce appunto pescata, rimandendo sollevati da terra di alcuni metri, intrappolati nelle stesse reti che condannano gli animali marini.
I pesci come simbolo di tutti gli animali sfruttati, ultimi fra gli ultimi, considerati una massa informe, privati addirittura della dignità di singoli individui. Anche loro, nonostante siano probabilmente le specie a cui di solito si riserva meno empatia, silenziosi abitanti di un mondo sommerso a noi ancora precluso e sconosciuto, possiedono la capacità di provare paura e sofferenza, così come tutti gli altri animali.
Dal sito di Essere Animali:
Molto spesso si crede erroneamente che la totalità del pesce consumato per l’alimentazione derivi dalle catture in mare aperto, tuttavia circa il 50% proviene dagli allevamenti intensivi.
I pesci sono senza dubbio gli animali per cui solitamente si prova meno empatia. La mancanza di considerazione di cui sono oggetto, il disinteressamento alla loro sorte da parte di molte persone comunque sensibili al rispetto delle altre specie è forse dovuto al loro ambiente di vita acquatico, ostile e ancora sconosciuto all’essere umano, o al fatto forse che i pesci non emettono suoni.
Gli animali, strappati dal loro ambiente naturale, vengono rinchiusi in delle vasche, in condizioni di vita e di sovraffollamento per nulla dissimili a quelle che si riscontrano nei capannoni per animali così detti da reddito.
Come negli omologhi terrestri, l’ingegneria genetica negli anni è riuscita a rendere più produttivi questi animali, trattati alla stregua di macchine, riuscendo ad ottenere pesci più grandi con più carne o esemplari resistenti alle malattie.
Il contorno è un luogo in cui l’afflusso di cibo, la luce e il ricambio delle acque è automatizzato, anche i parti sono artificiali, le uova sono tolte direttamente dagli esemplari femmina, a mano o introducendo con un ago dell’aria compressa. La maggior parte delle fattrici viene uccisa subito dopo l’estrazione, perché è controproducente economicamente mantenerle in vita e aspettare che le loro condizioni di salute tornino ad essere adatte ad un secondo parto.
La morte degli animali sopraggiunge per asfissia (dai 55 ai 250 minuti trascorrono prima di morire) o per sventramento (dai 25 ai 65 minuti).
Queste ‘acquafattorie’ sono a volte considerate l’alternativa sostenibile alla devastante pesca industriale, che utilizza reti a strascico per imprigionare e uccidere gli animali, il cui impatto ambientale è disastroso.
Ma di fronte a tutta questa sofferenza parlare di sostenibilità è un ossimoro e a chi giustifica la pesca sostenendo che crea posti di lavoro non possiamo che rispondere che auspichiamo che ogni tipo di attività umana che genera sofferenza agli animali sia abbandonata e superata al più presto.
Un vero cambiamento etico non può non tener conto della personale condizione di questi animali, del fatto che siano esseri senzienti. Come esseri umani abbiamo la capacità, fisica e mentale, di sottometterli e sfruttarli, ma non ne abbiamo la necessità.
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